Marasche

Le ciliege, per meglio dire le marasche, crescevano sul limitare del piccolo vigneto dove scorazzavano le galline. Era un alberello attraversato dalla rete arruginità di recinzione, quasi fosse prigioniero del ferro che ormai si era completamente "incarnito" nella corteccia.

Avevano un colore arancio, erano acidissime, e assolutamnete acquose e quasi diafane. Appena si premeva la buccia il nocciolo (l'osso) se ne saltava fuori. Di sicuro erano una varietà priva di qualsiasi pregio. L'acidità era notevole e se colte appena un po' prima della maturazione erano immangiabili. Ma io ci andavo, le raccoglievo e le mangiavo. Non ne ero goloso, logicamente, ma non dimenticavo mai che erano l'anticamera dell'estate.

Non mi pare fossero raccolte, non ne valeva la pena, ma erano in un bel posto, l'angolo in fondo, nascoste tra le foglie rigogliose di un cespuglio di nocciole e un melo, rosso.

Brillantini

D'inverno mi divertivo.

Chissà perché ho ricordi di grandi nevicate, di fossati ghiacciati, di trappole per uccelli, di chicchi di frumento usati come esche.

E, tuttavia, non ho ricordo di aver avuto freddo.

Certo era un avvenimento domestico quando faceva freddissimo e si ghiacciava l'acqua nei bicchieri in camera da letto, oppure si vedevano i "brillantini sulle pareti" come diceva mia mamma. Ma non avevo freddo.

Banalmente: ero sotto strati di coperte, pensavo a dormire, non avevo pensieri.

Brutti momenti

C'é stato un periodo brutto: l'impresa del nonno non navigava in acque tranquille, al contrario. Ci fu un esito drammatico. Il nonno arrivò al fallimento. Fu un momento duro, difficile, pieno di lacrime intuite. 
Qualcuno, non so chi, ci ha aiutato a rinascere, ad uscire dal buio. Mio padre prese le redini e si ripartì per nuove strade. Ci "portavano via" il camion, l'auto, tutto sequestrato. Non eravamo ancora in una casa di proprietà. Restammo lì, almeno quello.
Credo si siano presi anche cose essenziali, ma non ricordo i particolari. Qualcuno arrivava e si "prendeva" (sequestrava) oggetti, mobili, auto, moto, strumenti di casa.
Paura. La percepivo, non la vivevo. 
Il cibo c'era, sempre, in abbondanza.
Una mattina, era inverno, con la mamma sono andato a casa dei nonni materni a piedi, 6 chilometri. Non ricordo nessuna parola scambiata con la mamma, ero piccolo, non era ancora nata mia sorella: dovevo, pertanto, avere meno di sette anni, forse meno di sei, poteva essere l'inverno del '55-56. Basterebbe verificare: ci fu una nevicata, un inverno molto rigido.
Una mattina, prestissimo, c'era ancora buio. Ricordo la tristezza attenuata da una lama di luce bassissima e lontana: azzurro, viola, giallo, verso il mare.
Io volevo essere triste perché percepivo le lacrime della mamma, ma quella luce e quel biancore sulla neve mi riscaldavano il cuore. Verso casa dei nonni vedevo la notte, alle mie spalle una luce fantastica all'orizzonte. Solo ora riesco a capire la disgrazia che poteva essersi abbattuta sulla mia famiglia. Penso sia stato il giorno in cui, concretamente, sono arrivati a casa mia per "portare via la roba". Vagamente, mi pare, ricordo che la nonna fosse certa che la biancheria e le camere non avrebbero potuto essere toccate. Qualcuno aveva deciso di non farmi vedere quella disgrazia. 
Sono grato ai miei nonni e ai miei genitori per avermi risparmiato momenti di dolore.
La neve, fredda, di quella mattina non andava d'accordo con il sole che cercava di sorgere alle nostre spalle.
Ricordo esattamente il luogo, il buio, la luce, la siepe che ora non c'è più, quella strada, resa percorribile da uno spazzaneve casalingo, sicuramente trainato da un trattore.
I nonni mi avranno dato da mangiare, latte appena munto, caldo.

Maiale

Verso la fine di Novembre si doveva "uccidere il maiale", come fosse un assassino condannato alla forca. Uccidere il maiale aveva un significato univoco: rivoluzione domestica. Io venivo allontanato dalla zona esecuzione, non potevo, tuttavia, non sentire le urla disperate del disgraziato. La sua morte era l'unico attimo di tristezza in me. Ma, appunto, era un attimo.
Si raccoglieva il suo sangue in un grosso paiolo, si doveva fare la "dolze": sangue cotto con aromi, forse un po' di farina; veniva conservato e tagliuzzato a cubetti, quindi ri-cotto come il fegato. Delizioso, straordinario con la polenta. Tutto in quei giorni veniva cotto, spesso lessato: muso, orecchie, zampe, ossa in genere... Alcune ossa venivano trattate con il sale e conservate per giorni in una cassetta per essere utilizzate in un secondo momento: insaporivano i minestroni. Anche la cotenna veniva utilizzata, soffritta all'infinito affinché liberasse tutto il suo grasso, si ricavava molto strutto da un maiale, era prezioso, conservato in barattoli di vetro, usato per friggere o per impastare dolci: Mai sentito dire che potesse fare male!
Ancora una volta la regina di ogni mossa in casa era la nonna. Dirigeva con sapienza antica ogni cosa. La mamma aiutava.
Se riesco a "vedere" la nonna non riesco neppure ad immaginare dove fosse e cosa facesse la Mamma. Semplicemente era ininfluente la sua presenza. Io non avevo occhi che per chi comandava la rappresentazione, era un momento importante, non poteva essere lasciato al dilettantismo.
Mia madre non c'è mai nei miei ricordi, c'è poco perché non contava.
Quando poi si faceva sul serio, il maiale veniva completamente eviscerato. Si raccoglieva tutto, le budella sarebbero servite per gli insaccati.
La notte, diviso in due parti assolutamente uguali nel senso della lunghezza ed appese a due enormi chiodi dalla parte della testa, il maiale veniva lasciato ad asciugare, penso che questa operazione servisse anche a frollare le carni.
Non ricordo quando, avvolto in una nube di vapore, il "signore dei maiali" (non ricordo il nome, che peccato) iniziava la lavorazione delle carni. Servivano anche sale e pepe, lo spago -al quale sono rimasto affezionato- non poteva mai mancare.
I due prosciutti venivano ricoperti con una pastella che ognuno faceva a modo suo. Questo impasto ricopriva la parte del taglio, onde evitare che marcissero, o che le mosche, un pericolo concreto e drammatico, si annidassero in quelle carni saporite. Sí, erano sempre un pochino troppo salati per i miei gusti.
Un altro insaccato che ricordo con disgusto (raro, perché non mi disgusta quasi nulla) era un cotechino più grande degli altri con, all'interno, la lingua stessa del maiale: una prelibattezza, dicevano, ma io credo che tale fosse considerato perché di tutto un maiale se ne otteneva solo uno.
A me piaceva la pancetta, i panini, ma anche soffritta, al mattino, molto inglese, per farci colazione.
Il maiale veniva ucciso con rispetto: dava da mangiare: sfamava famiglie povere, era un'alternativa per chi non aveva problemi.
Ma alcune famiglie non avevano neppure quel poco che permetteva di allevare il maiale.
Di quei periodi mi è rimasta l'umidità e la nebbiolina che avvolgeva tutti gli uomini che "facevano su" il maiale.
Non esistono ricordi disgustosi. 
Non ricordo paure. 
Soprattutto non ricordo la mamma.

Quella neve

Sulla neve mi piacerebbe tornare.
Le "cavallette" di neve si formavano quando soffiava anche la tramontana. Allora sì che era bello andare a caccia di pettirossi o scriccioletti nascosti, in cerca di caldo, tra le siepi. Era anche piacevole saperrli catturare a mani nude. Io ci riuscivo, non ricordo dove posso aver imparato.
Da ragazzo sapevo fare tutte le le "cose" che si fanno (facevano!) in campagna. Quando nevicava, mi pare nevicasse ogni anno, era normale, si andava a comperare qualche trappola per catturare merli e passerotti. Tutti lo facevano, tutti si dedicavano a questo passatempo crudele. Gli uccellini venivano poi mangiati. Non é facile ripensare oggi a quei passatempi così naturali e usuali per ogni famiglia. Catturare una ventina di "seeghete" (passerotti) oltre che divertente diventava anche un buon pasto, cotti in forno questi cibi hanno reso famosi piatti come "poenta e osei", confesso anche che erano buonissimi. Buonissimo era il sugo che si sprigionava dai tocchetti di pancetta che arrostiva nella cucina economica.
Non abbiamo mai patito la fame noi, mai. Non ho ricordi di sofferenze tipiche di molte famiglie di quell'epoca.
La caccia in autunno ed inverno, la pesca in primavera ed estate fornivano qualche prelibatezza, a patto che la pietanza non fosse distrutta dal sale che la nonna usava in abbondanza, anche questo simbolo di una agiatezza non usuale.
Quando, di notte, cadeva la neve, ed era abbondante, si accatastava sui davanzali delle finestre ed ogni volta che uno scuro veniva aperto cadeva nel cortile, con un tonfo ovattato che permetteva, ad un orecchio esperto, di calcolare i centimetri caduti.
Poi c'era solo festa di palle di neve e, occasionalmente, il nonno faceva "el pajasso" col carbone al posto degli occhi, la scopa di saggina in mano ed un ghigno divertito.

Quella notte

La notte in cui è morto io lo sapevo che stava per morire.

Tornando dal paese, verso le undici di sera, avevo sentito un colpo di tosse. Assolutamente naturale, come succedeva, come succede a tutti.

Non so cosa mi fece pensare: "El nono more 'sta note". Non so spiegarmi questo pensiero.

Alle sette del mattino il nonno era morto, in ospedale. Era con la nonna.

Ho voluto fare il superiore e fingere realismo, avevo per la testa la mia donna, il mio amore, il matrimonio ormai deciso.

Anche durante quel giorno sono andato con gli amici. Dentro di me un dolore immenso, mai esternato.

Al funerale, in cimitero, portavo un mazzo di fiori bellissimo, inviato da lontano. Lo buttai a terra, qualcuno lo raccolse per depositarlo davanti alla tomba di famiglia.

Non ricordo altro di quel giorno, faceva freddo senza dubbio, mi sembra fosse il 21 gennaio. Una data importante, un numero che è tornato talvolta nella mia vita.